La storia di Bruno Mazzotta, calciatore della Cavese. E quel ricordo di Piero Santin…
Caro Davide,
forse non ne sei a conoscenza, ma la mia convinta e piena adesione alla tua bella e meritoria iniziativa della creazione dell’Associazione Fioravante Polito, ora Fondazione (Ad Maiora!), con la battaglia di civiltà del Passaporto Ematico “Andrea Fortunato, Flavio Falzetti e Piermario Morosini” – tesa a rendere obbligatori i controlli ematici per tutti gli sportivi a partire dalla più tenera età – non risiede soltanto nella condivisione del medesimo dolore per una morte, quella di mia madre (valente cestista di buon livello che da playmaker aveva la capacità di centrare il canestro con quei tiri da lontano che in tempi più recenti si sarebbero definite “bombe da tre punti”), avvenuta a causa di una di quelle malattie ematiche che, come per il povero Andrea Fortunato, non lasciano scampo, chiamata linfoma non-Hodgkin. Ma trova fondamento anche in un avvenimento luttuoso (una morte ad oggi rimasta ancora senza un perché) che vide purtroppo protagonista sfortunato il fratello di mio padre, bravissimo calciatore nonché capitano della Cavese del dopoguerra, morto in circostanze misteriose alla giovane età di venticinque anni.
Voglio pertanto raccontarti la storia di Bruno Mazzotta, lo zio che non ho mai conosciuto.
Siamo negli anni immediatamente successivi al secondo disastroso conflitto mondiale, che ha lasciato lutti e rovine: nei sopravvissuti la voglia di ripartire e di vivere, superando quei momenti bui così ancora irrimediabilmente angosciosi e recenti è grande ed il calcio è la passione numero uno di quei ragazzi come Bruno Mazzotta, dotati di talento ed anche di fisico.
Bruno è nato a Cava dei Tirreni nel 1926 da Matilde Casaburi e Luigi Mazzotta, ferroviere che di lì a poco dovrà trasferirsi a Gorizia con la famiglia in ragione del proprio lavoro (siamo negli anni seguenti alla prima guerra mondiale, ed in quella terra di frontiera oggetto di annoso contenzioso i nazionalismi etnici fanno sentire i risentimenti non sopiti: ricordo al riguardo quello che la nonna Matilde – oltre ad insegnarmi da piccolo, cantandomela, la canzone del Piave che da allora conosco strofa per strofa a memoria- mi raccontava di quel periodo da lei vissuto al confine orientale, e dei rancori esistenti tra gli italiani di quelle zone e gli jugoslavi).
Il soggiorno in quelle lande lontane non dura molto, perché Luigi Mazzotta improvvisamente muore e mia nonna è costretta a tornare a Cava con il piccolo Bruno, dove si risposerà con Francesco Cuoco, dalla cui unione nascerà mio padre Salvatore.
Bruno cresce e gioca –bene- a calcio, oltre a studiare all’Università con profitto Giurisprudenza ed ad avere una bella fidanzata, la signorina Annamaria Amabile, di nobile famiglia cavese: è buono di animo, generoso e benvoluto da tutti, ed è un ottimo atleta, tanto da diventare un giovanissimo capitano della Cavese, pur con la presenza in squadra di calciatori di esperienza e di valore più grandi di lui.
Quella Cavese è una squadra forte, che macina un calcio pratico ed efficace ma anche bello da vedersi, che vince due campionati di seguito ed approda in Promozione, che nella graduatoria dei campionati allora veniva subito dopo la serie C, e Bruno ne è l’alfiere e il capitano. Il mio capitano, come affettuosamente mister Piero Santin (allora giovanissimo calciatore, che trenta anni dopo avrebbe portato in serie B la Cavese come allenatore) amava chiamarlo. «Era un giocatore molto tecnico, un centrocampista di gran classe, ma anche un punto di riferimento e una guida per noi giovani” ricorderà mister Santin in un’intervista che gli feci per il “Roma” in occasione dei trenta anni dalla vittoria conseguita dalla Cavese sul Milan a S. Siro il 7 novembre 1982.
Senonché, per un crudele scherzo del destino, proprio nel momento di maggior fulgore fisico e di vita, nella prospettiva delle nozze con la signorina Amabile e di una laurea in Giurisprudenza, nonché sulle ali dei successi sportivi e dell’amore dei tifosi, la gioia si trasforma in dramma, e dopo quello che mio padre mi definì uno scontro di gioco, dal quale si riebbe dopo essere stato soccorso con i mezzi che allora la medicina sportiva aveva a disposizione, tornato a casa lo zio Bruno fu costretto a patire una settimana di fortissimi, laceranti dolori di testa, dai quali derivò una devastante emorragia interna che lo portò alla morte, a nemmeno 26 anni, il 18 febbraio del 1951.
Le cause della morte non furono mai definitivamente chiarite, in un epoca ed in un periodo in cui la medicina sportiva non godeva dei mezzi strumentali e della diagnostica di cui dispone adesso.
I funerali furono un evento di popolo come mai se ne era visto a Cava de’ Tirreni, con tutta la città che si strinse intorno al feretro del giovane capitano della Cavese, con la maglia biancoblu con il numero sei con l’aquilotto disposta sulla bara, che le cronache dell’epoca narrano come solenni e commoventi.
Anni dopo allo zio Bruno, con la costruzione del nuovo impianto di via Mazzini, sarebbe stato doveroso intitolare il nuovo stadio, lui capitano della Cavese nato a Cava e morto per cause di gioco per la maglia blu e bianca degli aquilotti, ma le strade della politica portarono prima a dilatorie non scelte, poi, frettolosamente ad una scelta che – lo dico con grande rispetto per i familiari della sfortunata Simonetta, la prof. Angela Procaccini già collega di mio padre buonanima al “Matteo Della Corte” ed il dr. Alfonso Lamberti di recente scomparso – con lo sport non aveva nulla a che fare, anche perché mio padre il prof. Salvatore Cuoco, con la sua innata discrezione e la sua signorilità e onestà morale non volle mai fare alcuna pressione per indirizzare una decisione che oggettivamente avrebbe dovuto conseguire ex se, come lo stesso mister Piero Santin ebbe esplicitamente a dichiarare.
Colgo pertanto l’occasione che la tua bella rivista mi offre del ricordo dello zio Bruno per invitare l’attuale amministrazione comunale a riconsiderare la decisione di allora ed onorare un debito morale nei confronti del compianto Bruno Mazzotta in ragione del suo sacrificio per la squadra e la città e nel contempo ricordare la povera, innocente martire Simonetta Lamberti con l’intitolazione di una piazza e di una strada cittadina.
Il dramma di Bruno Mazzotta si compiva tanti anni fa. Ma caro Davide, come ti è ben noto, ancora oggi le morti di calciatori– e sportivi in genere -, anche i più ligi e scrupolosi e seri nel condurre una vita da atleta, si ripetono sui campi di gioco.
Per questo la tua nobile battaglia per la sicurezza della salute degli atleti merita di essere sostenuta e incoraggiata, per evitare che eventi siffatti possano ripetersi. Se non del tutto – sarebbe un’utopia, data anche la componente fatalistica di tali accadimenti – ma almeno con frequenza minore e soprattutto non in ragione della mancata prevenzione e dei mancati indispensabili controlli.
A cura di Francesco Cuoco